Sono al Mediolanum Forum di Assago ad
ascoltare il Dalai Lama.
Nel
1999, quando lo incontrai per la prima volta a Milano, si era presentato, come
un semplice monaco, rifiutando l’etichetta di “Buddha vivente” come un
fraintendimento che lo imbarazzava, sminuendo la statura storica del Buddha.
Parlando della devozione di cui godono in Tibet i lama, i maestri spirituali, precisò
che la devozione non deve essere in nessun caso fede cieca, ma solo profondo
rispetto basato sul senso critico e un attenta osservazione delle qualità
caratteriali del maestro. “E questo vale anche per me: mettetemi pure sotto
esame, senza farvi impressionare dall’alto trono in cui sono seduto e dal mio
nome altisonante”. E concluse con una delle sue caratteristiche, fragorose
risate.
Oggi
nel parlarci scende dal trono, dove la mattina aveva guidato una cerimonia di
iniziazione, sedendosi sullo scalino più basso del palco: “Sono sempre contento
di incontrare gente con cui condividere le mie esperienze: sono anche per me
occasioni di apprendimento, per ritornare su certi concetti e per imparare
nuovi punti di vista.”
Abbandonando
anche le vesti del monaco, si presenta a noi semplicemente come uomo. Ci parla
non dall’alto del suo ruolo di leader spirituale di un popolo e di un’antica
tradizione religiosa, quella del buddismo tibetano, ma da pari a pari, sulla
base della sua esperienza, della sua saggezza umana e del suo desiderio di
condividerla con altri esseri umani.
“Mi
sento una persona semplice, in nulla diverso da sette miliardi di altri esseri
umani. Siamo tutti uguali. Se nel rivolgermi a voi pensassi di essere un monaco
buddista, creerei un divario tra me e voi. Il fondamento del nostro essere
uguali è una natura comune, è il soffrire e il desiderio di essere felici.”
“Se
io penso di essere il Dalai Lama e di essere migliore degli altri, creo una
distanza con gli altri, mi isolo. Fin da ragazzo è stata una mia aspirazione
considerarmi uguale agli altri, superare le barriere che mi separano dagli
altri. Allora mi piaceva molto chiacchierare con gli spazzini e mescolarmi con
loro. In questo modo ora ho amici in tutto il mondo, non soffro la solitudine,
sono felice.”
Queste
parole mi hanno richiamato alla memoria il Potala, la
maestosa residenza del Dalai Lama, dalla quale fu costretto a fuggire nel 1959 dall’invasione
dei cinesi. L’ho visitata nel 1994, ridotta a un polveroso e triste museo. Ma
credo che la sensazione di claustrofobia che mi diede, in questa visita, non
fosse dovuta solo allo stato di abbandono in cui l’avevano ridotto i cinesi. Il
Potala torreggia distante sulla capitale, Lhasa, dominandola da lontano. Le sue
stanze probabilmente erano buie anche quando le abitava il Dalai Lama e anche
allora ospitavano le tombe dei suoi predecessori. Qui, isolato dal resto del
mondo, il Dalai Lama era educato dai suoi maestri. L’alpinista austriaco Heinrich
Harrer nel suo libro “Sette anni in Tibet” parla della tetraggine di questa antica reggia e della
vivace curiosità che il giovanissimo Tenzin Gyatso (il suo nome prima di
assumere la carica di Dalai Lama) manifesta verso di lui e la cultura
occidentale.
Mi
viene da pensare che la fuga dal Potala, con la forzata rinuncia al potere temporale
e la dolorosa esperienza dell’esilio, sia diventata alla fine per lui un'occasione per realizzare
questa sua aspirazione, coltivata fin da ragazzo, di avvicinarsi agli altri
uomini, sperimentando la sua uguaglianza con loro, soddisfacendo al contempo la
sua curiosità di conoscere la cultura occidentale.
Non
ci parla di saggezza buddista, Tenzin Gyatso, ma di “etica secolare”, cioè di un'etica
non religiosa, universalmente umana, in grado di condurci fuori
dalle guerre e dai conflitti del XX secolo, di “educarci a un nuovo modo di
pensare, a pensare che i conflitti possono essere risolti non con la violenza,
ma con il dialogo, parlandosi. Il dialogo si basa sul rispetto della vita degli
altri e del bisogno comune, nostro e degli altri, di essere felici.”.
“Fin
da piccoli il nostro benessere dipende dall'affetto degli altri. Quando gli
altri ci vogliono bene, noi siamo felici. L'etica altruistica che propongo si
basa non su regole religiose, ma sulla nostra intelligenza di esseri umani. Un
tempo le etnie, i paesi avevano pochi rapporti gli uni con gli altri. Ma ora il
mondo è globale e interdipendente. Ora dobbiamo pensare a noi come a un noi
mondiale, universale. Nelle Hawaij dicono: "il tuo sangue è il mio sangue,
le tue ossa sono le mie ossa", che significa: le tue sofferenze sono le
mie sofferenze, le tue gioie sono le mie gioie. Se diventiamo consapevoli della
dipendenza della mia felicità da quella degli altri, se vogliamo continuare a essere egoisti, almeno possiamo
essere egoisti in un modo intelligente.”
Il
Dalai Lama guarda al futuro e ai giovani: “Dobbiamo insegnare questa etica
secolare a scuola fin dai primi anni. Il prossimo mese compierò 77 anni. Io,
come la maggior parte di voi, appartengo più al secolo passato che a questo. E
il XX secolo è stato il secolo delle guerre (più di 200 milioni di persone
uccise in guerra) e della bomba atomica. Anche le guerre del XXI secolo nascono
da errori compiuti nel secolo precedente. Proviamo a fare del XXI secolo il
secolo del dialogo. I giovani possono avere un modo di pensare meno rigido, più
aperto del nostro. La nostra società è troppo basata sulla competitività, e
poco sull'etica. Bisogna cambiare il nostro modo di pensare addestrando la
nostra mente: così potremo con il tempo elaborare nuove strategie. Ma ci vorrà
tempo per questo: non è come prendere una pillola.”