domenica 22 aprile 2012

L'arte della presenza mentale


Quando la  meditazione diventa performance artistica

Sabato mattina ho meditato per quasi due ore seduto, in piedi, sdraiato: le tre classiche posizioni della meditazione buddista. A occhi chiusi, seguendo il respiro.

Un'esperienza famigliare per me, da anni. Non nuova per me l'esperienza dell'immobilità, del silenzio, reso più intenso da una cuffia sulle orecchie, della distrazione dei pensieri, che rende così difficile cogliere quel momento presente così prezioso, di cui parlano i maestri zen. Un qui e ora che ho sperimentato solo a tratti, quando il rilassamento apriva un varco tra i pensieri e le tensioni fisiche. Un varco in cui avvertivo una forte energia intorno a me: l'energia degli enormi cristalli di quarzo, tormalina ecc.,  posti sotto il lettino, sullo schienale della sedia ergonomica? quella del magnete collocato sopra la testa di un parallelepipedo in cui ho sostato in piedi? Semplicemente l'energia delle persone accanto a me? O l'energia in me?

Sedie ergonomiche, lettini, impalcature di legno, cristalli, cuffie: ausilii non comuni, ma non del tutto nuovi per chi pratica la meditazione. A essere completamente nuovo è il luogo, il contesto, per chi come me ha meditato a casa, in centri di meditazione, luoghi isolati.

Il luogo: un luogo pubblico, il PAC, il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. In presenza di spettatori che potevano guardarci durante la meditazione da vicino o più da lontano, da una sorta di loggione, con l'aiuto di cannocchiali e telescopi.

Il contesto: la performance artistica The Abramovic Method, in programma al PAC di Milano fino al prossimo 10 giugno. Quando io e Chameli abbiamo acquistato il biglietto avevamo letto di Marina Abramovic, performer serba sessantacinquenne,  che dopo aver sottoposto il suo corpo a prove estreme, negli ultimi anni si è aperta a una dimensione più meditativa. Sapevamo che Marina Abramovic durante i suoi quarant'anni di carriera era "giunta alla conclusione che il pubblico giochi un ruolo molto importante e cruciale nella performance stessa, […] che il pubblico completa l'opera. Nel caso di una performance è esattamente quello che succede. Senza il pubblico, la performance non ha senso. Il pubblico e il performer sono inseparabili e si completano l'un l'altro."



Chameli ed io ci aspettavamo quindi un'esperienza meditativa e un nostro coinvolgimento in questa esperienza. Ma non ci aspettavamo che la performance fosse la nostra meditazione, che la nostra consapevolezza del respiro e della postura, il nostro semplice essere presenti potessero diventare spettacolo per altri.

Ci aspettavamo che la performance avesse Marina Abramovic come protagonista, con noi come comprimari partecipi e attivi. Non pensavamo di essere noi il cuore della performance. Ci aspettavamo di incontrare Marina Abramovic e invece l'abbiamo vista solo in video, raccontare in breve la sua esperienza artistica e quindi dare alcune istruzioni a noi e agli altri partecipanti. In scena siamo rimasti noi, senza di lei.

Marina Abramovic era presente nella performance non di persona, ma come metodo: un metodo che consiste nella firma da parte dei partecipanti di un contratto, in cui si chiede di rimanere in sala per due ore e in una serie di istruzioni di semplici pratiche energetiche, impartite via video, introduttive rispetto alla successiva performance meditativa.

La performance The Abramovic Method mi è sembrata l'ultima fase di un’evoluzione artistica e spirituale, culminata con l'esperienza The artist is presence, di un paio di anni fa al MoMa di New York, in cui per tre mesi consecutivi tutti i giorni Marina Abramovic, seduta in silenzio su una sedia, semplicemente guardava chiunque si sedesse al tavolo, di fronte a lei. Le riprese di quei tre giorni, mostrate al PAC, ci restituiscono un volto, quello di Marina Abramovic, di grande bellezza, espressivo e imperturbabile, l'intensità degli sguardi suoi e di chi le sedeva di fronte. Come ha detto l'artista serba in un'intervista, quello che ci ha mostrato al MoMa è come per fare arte non sia necessario fare qualcosa: l'arte è semplicemente il dono della propria presenza.



A Milano al PAC un'ulteriore evoluzione per sottrazione: di Marina Abramovic resta il metodo. Non c'è più bisogno della sua presenza eroica da maratoneta delle performance, non c'è più bisogno della bellezza del suo viso. È bellezza, è arte la presenza mentale in chiunque la pratichi.

Ha scritto Marina Abramovic sul suo metodo:
Stiamo vivendo in un periodo difficile, nel quale il tempo ha sempre più valore, semplicemente perché ce n'è sempre di meno.
Credo che la performance di lunga durata abbia il potere di creare una trasformazione mentale e fisica sia per il performer sia per lo spettatore.
Per questo motivo vorrei dare al pubblico l'opportunità di sperimentare e riflettere sulla vacuità, il tempo, lo spazio, la luminosità e il vuoto.
Durante questa esperienza, spero che l'osservatore e l'osservato sapranno mettersi in relazione con se stessi e con il presente - l'inafferrabile momento del 'qui e ora'.

Importanti maestri hanno detto che la meditazione è osservazione partecipe di uno spettacolo che avviene in noi stessi, che la presenza mentale può essere considerata un'arte, l'arte suprema. E un barlume di questa verità è arrivata fino a me, dalla mia diretta esperienza. Ma non avrei mai pensato che qualcosa di così interiore, intimo, come la meditazione potesse diventare arte con un pubblico.

Mi sono chiesto che cosa possa arrivare agli spettatori di questa presenza, di quanto avviene interiormente a performer che non fanno assolutamente nulla: semplicemente sono seduti, sdraiati, in piedi immobili, a occhi chiusi. Quando con un telescopio ho provato a guardare i volti dei performer che sono venuti dopo di noi, ho avvertito un senso di disorientamento, smarrimento. "Cosa c'è da vedere?" Mi sono chiesto, non sapendo bene cosa fare con questo telescopio. Come se un regista avesse appena detto: “Azione” e sulla scena non succedesse proprio nulla. E mi è sembrato di cogliere un'espressione di questo stesso smarrimento nel volto spaesato di un performer, quando ha aperto gli occhi, per qualche minuto. Mi sono reso conto come questo disorientamento sia un horror vacui, sveli la nostra difficoltà di persone concentrate sul fare a sperimentare la non-azione, il vuoto, la semplice presenza.

Telescopi, cannocchiali: Marina Abramovic ce li ha messi a disposizione per vedere più da vicino i dettagli della performance? o per farci toccare con mano quanto sia inadeguata la pretesa di realmente cogliere qualcosa dell’altro con gli strumenti tecnologici di indagine oggettiva? per mostrarci quanto sia elusivo ed enigmatico il "qui ed ora"? quanto ci soprenda tutti, inatteso?

martedì 17 aprile 2012

Echi di Osho: la verità su di lui, oltre i media

Osho, noto anche come Bhagwan e Rajneesh, il guru indiano dalla lunga barba. Chameli ne ha parlato sul blog. Contrariamente a lei, io non l'ho mai incontrato. Quando era in vita, di lui ho avuto solo echi indiretti, spesso distorti da rumori di fondo.

Qui a Milano mi capitava, al Liceo e nei primi anni di università, di incontrare qualche volta per caso i suoi seguaci, gli arancioni, chiamati così per il colore dei loro vestiti. Ne sapevo poco e li confondevo con gli Hare Krishna.

Dai mass-media di lui mi arrivavano notizie scandalistiche: il guru del sesso libero, amante del lusso, collezionista di Rolls Royce, la sua comune nell'Oregon, la sua segretaria che scappa con la cassa, il suo arresto da parte della polizia americana, la sua espulsione, il suo ritorno in India, dove a Poona si costituisce attorno a lui una nuova comunità, dipinta a tinte fosche come luogo di droga e di promiscuità sessuale.

Negli anni '90, quando era già morto, mi è capitato di leggere Operazione Socrate, il racconto dell'esperienza dell'Oregon di due suoi seguaci italiani, Majid Valcarenghi e Ida Porta: ne emergeva un Osho diverso da quello dei giornali: un maestro spirituale anti-tradizionalista, anti-conformista, polemico e provocatorio verso le religioni istituzionali, per questo motivo attaccato dai fondamentalisti  evangelici, incarcerato e avvelenato dal Governo americano, come Socrate lo fu dal Governo ateniese. Una testimonianza di parte? Può darsi, ma degna di ascolto, come fonte alternativa alla "verità ufficiale" dei media. Più difficile è considerare di parte il giornalista Enzo Biagi, autore di un'intervista molto rispettosa a Osho.

Chi era veramente Osho? Supponiamo ora di volere arrivare a una verità su di lui, in modo il più possibile obiettivo, considerando pure gli aspetti più controversi della sua esperienza in Oregon, andando oltre le denigrazioni dei suoi nemici, ma anche l'agiografia dei suoi seguaci. Se fossi un giornalista, tra le fonti non potrei non considererare le testimonianze di chi lo ha avuto come maestro. Ma so che in questo modo non avrei più a che fare con la verità come è comunemente intesa dai reportage giornalistici. I suoi discepoli mi parlerebbero non di fatti, ma di quello che Osho ha significato nella loro vita. Toccheremmo un altro livello di verità, con altre regole del gioco.

"Che cos'è la verità?" chiese Ponzio Pilato a Gesù, che non gli rispose. La risposta di un autentico Maestro a questa domanda non può porsi su un piano logico-intellettuale. L'insegnamento è comunicato attraverso altri canali, passa da cuore a cuore. Chi di Osho ha avuto un'esperienza diretta raccontando di lui racconterebbe qualcosa di se stesso, della propria vita, qualcosa di prezioso e di profondo. Sarebbe anche la verità su di sé, non solo la verità su Osho. Una verità che coinvolge e mette in gioco chi ne parla.

Osho, pungente e dissacrante, che mi guarda dalle sue foto con occhi di una dolcezza disarmante. Non lascia indifferente: ti affascina o ti fa paura. L'ho avvicinato poco a poco, praticando la meditazione Vipassana e conoscendolo dalle parole di altri meditanti come divulgatore e innovatore delle tecniche orientali di meditazione. Mi sono avvicinato lentamente, ammettendo la mia paura e aprendomi alla vita  L'ho scoperto incontrando Chameli, la mia compagna: a lei e a lui ho dedicato una poesia.