Quando la meditazione diventa performance artistica
Sabato mattina ho
meditato per quasi due ore seduto, in piedi, sdraiato: le tre classiche
posizioni della meditazione buddista. A occhi chiusi, seguendo il respiro.
Un'esperienza
famigliare per me, da anni. Non nuova per me l'esperienza dell'immobilità, del silenzio, reso più intenso da una cuffia
sulle orecchie, della distrazione dei pensieri, che rende così difficile
cogliere quel momento presente così prezioso, di cui parlano i maestri zen. Un
qui e ora che ho sperimentato solo a tratti, quando il rilassamento apriva un
varco tra i pensieri e le tensioni fisiche. Un varco in cui avvertivo una forte
energia intorno a me: l'energia degli enormi cristalli di quarzo, tormalina ecc.,
posti sotto il lettino, sullo schienale
della sedia ergonomica? quella del magnete collocato sopra la testa di un
parallelepipedo in cui ho sostato in piedi? Semplicemente l'energia delle
persone accanto a me? O l'energia in me?
Sedie ergonomiche,
lettini, impalcature di legno, cristalli, cuffie: ausilii non comuni, ma non del
tutto nuovi per chi pratica la meditazione. A essere completamente nuovo è il
luogo, il contesto, per chi come me ha meditato a casa, in centri di meditazione,
luoghi isolati.
Il luogo: un luogo
pubblico, il PAC, il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. In presenza di
spettatori che potevano guardarci durante la meditazione da vicino o più da
lontano, da una sorta di loggione, con l'aiuto di cannocchiali e telescopi.
Il contesto: la
performance artistica The Abramovic Method, in programma al PAC di Milano fino al prossimo 10 giugno. Quando io
e Chameli abbiamo acquistato il biglietto avevamo letto di Marina Abramovic,
performer serba sessantacinquenne, che dopo aver sottoposto il suo corpo
a prove estreme, negli ultimi anni si è aperta a una dimensione più meditativa.
Sapevamo che Marina Abramovic durante i suoi quarant'anni di carriera era "giunta
alla conclusione che il pubblico giochi un ruolo molto importante e cruciale
nella performance stessa, […] che il pubblico completa l'opera. Nel caso di una
performance è esattamente quello che succede. Senza il pubblico, la performance
non ha senso. Il pubblico e il performer sono inseparabili e si completano l'un
l'altro."
Chameli ed io ci
aspettavamo quindi un'esperienza meditativa e un nostro coinvolgimento in
questa esperienza. Ma non ci aspettavamo che la performance fosse la nostra meditazione, che la nostra consapevolezza del respiro e della
postura, il nostro semplice essere
presenti potessero diventare spettacolo per altri.
Ci aspettavamo che
la performance avesse Marina Abramovic come protagonista, con noi come
comprimari partecipi e attivi. Non pensavamo di essere noi il cuore della performance.
Ci aspettavamo di incontrare Marina Abramovic e invece l'abbiamo vista solo in
video, raccontare in breve la sua esperienza artistica e quindi dare alcune
istruzioni a noi e agli altri partecipanti. In scena siamo rimasti noi, senza di lei.
Marina Abramovic era
presente nella performance non di persona, ma come metodo: un metodo che
consiste nella firma da parte dei partecipanti di un contratto, in cui si
chiede di rimanere in sala per due ore e in una serie di istruzioni di semplici
pratiche energetiche, impartite via video, introduttive rispetto alla
successiva performance meditativa.
La performance The Abramovic
Method mi è sembrata l'ultima fase di un’evoluzione artistica e spirituale,
culminata con l'esperienza The artist is presence,
di un paio di anni fa al MoMa di New York, in cui per tre mesi consecutivi tutti i giorni Marina
Abramovic, seduta in silenzio su una sedia, semplicemente guardava chiunque si
sedesse al tavolo, di fronte a lei. Le riprese di quei tre giorni, mostrate al
PAC, ci restituiscono un volto, quello di Marina Abramovic, di grande bellezza,
espressivo e imperturbabile, l'intensità degli sguardi suoi e di chi le sedeva
di fronte. Come ha detto l'artista serba in un'intervista, quello che ci ha
mostrato al MoMa è come per fare arte non sia necessario fare qualcosa: l'arte
è semplicemente il dono della propria presenza.
A Milano al PAC
un'ulteriore evoluzione per sottrazione: di Marina Abramovic resta il metodo.
Non c'è più bisogno della sua presenza eroica da maratoneta delle performance,
non c'è più bisogno della bellezza del suo viso. È bellezza, è arte la presenza
mentale in chiunque la pratichi.
Ha scritto Marina
Abramovic sul suo metodo:
Stiamo vivendo in un periodo difficile, nel quale il tempo ha sempre più valore, semplicemente perché ce n'è sempre di meno.Credo che la performance di lunga durata abbia il potere di creare una trasformazione mentale e fisica sia per il performer sia per lo spettatore.Per questo motivo vorrei dare al pubblico l'opportunità di sperimentare e riflettere sulla vacuità, il tempo, lo spazio, la luminosità e il vuoto.Durante questa esperienza, spero che l'osservatore e l'osservato sapranno mettersi in relazione con se stessi e con il presente - l'inafferrabile momento del 'qui e ora'.
Importanti
maestri hanno detto che la meditazione è osservazione partecipe di
uno spettacolo che avviene in noi stessi, che la presenza mentale può essere
considerata un'arte, l'arte suprema. E un barlume di questa verità è arrivata
fino a me, dalla mia diretta esperienza. Ma non avrei mai pensato che qualcosa
di così interiore, intimo, come la meditazione potesse diventare arte con un pubblico.
Mi sono chiesto che
cosa possa arrivare agli
spettatori di questa presenza, di quanto avviene interiormente a performer che non fanno assolutamente nulla:
semplicemente sono seduti, sdraiati, in piedi immobili, a occhi chiusi. Quando
con un telescopio ho provato a guardare i volti dei performer che sono venuti
dopo di noi, ho avvertito un senso di disorientamento, smarrimento. "Cosa
c'è da vedere?" Mi sono chiesto, non sapendo bene cosa fare con questo
telescopio. Come se un regista avesse appena detto: “Azione” e sulla scena non
succedesse proprio nulla. E mi è sembrato di cogliere un'espressione di questo
stesso smarrimento nel volto spaesato di un performer, quando ha aperto gli
occhi, per qualche minuto. Mi sono reso conto come questo disorientamento sia
un horror vacui, sveli la nostra difficoltà di persone concentrate sul fare a
sperimentare la non-azione, il vuoto, la semplice presenza.
Telescopi,
cannocchiali: Marina Abramovic ce li ha messi a disposizione per vedere più da
vicino i dettagli della performance? o per farci toccare con mano quanto sia
inadeguata la pretesa di realmente cogliere qualcosa dell’altro con gli
strumenti tecnologici di indagine oggettiva? per mostrarci quanto sia elusivo ed enigmatico
il "qui ed ora"? quanto ci soprenda tutti, inatteso?