venerdì 29 giugno 2012

Il Dalai Lama, un uomo che non si sente solo


Sono al Mediolanum Forum di Assago ad ascoltare il Dalai Lama.
Nel 1999, quando lo incontrai per la prima volta a Milano, si era presentato, come un semplice monaco, rifiutando l’etichetta di “Buddha vivente” come un fraintendimento che lo imbarazzava, sminuendo la statura storica del Buddha. Parlando della devozione di cui godono in Tibet i lama, i maestri spirituali, precisò che la devozione non deve essere in nessun caso fede cieca, ma solo profondo rispetto basato sul senso critico e un attenta osservazione delle qualità caratteriali del maestro. “E questo vale anche per me: mettetemi pure sotto esame, senza farvi impressionare dall’alto trono in cui sono seduto e dal mio nome altisonante”. E concluse con una delle sue caratteristiche, fragorose risate.
Oggi nel parlarci scende dal trono, dove la mattina aveva guidato una cerimonia di iniziazione, sedendosi sullo scalino più basso del palco: “Sono sempre contento di incontrare gente con cui condividere le mie esperienze: sono anche per me occasioni di apprendimento, per ritornare su certi concetti e per imparare nuovi punti di vista.”
Abbandonando anche le vesti del monaco, si presenta a noi semplicemente come uomo. Ci parla non dall’alto del suo ruolo di leader spirituale di un popolo e di un’antica tradizione religiosa, quella del buddismo tibetano, ma da pari a pari, sulla base della sua esperienza, della sua saggezza umana e del suo desiderio di condividerla con altri esseri umani.
“Mi sento una persona semplice, in nulla diverso da sette miliardi di altri esseri umani. Siamo tutti uguali. Se nel rivolgermi a voi pensassi di essere un monaco buddista, creerei un divario tra me e voi. Il fondamento del nostro essere uguali è una natura comune, è il soffrire e il desiderio di essere felici.”
“Se io penso di essere il Dalai Lama e di essere migliore degli altri, creo una distanza con gli altri, mi isolo. Fin da ragazzo è stata una mia aspirazione considerarmi uguale agli altri, superare le barriere che mi separano dagli altri. Allora mi piaceva molto chiacchierare con gli spazzini e mescolarmi con loro. In questo modo ora ho amici in tutto il mondo, non soffro la solitudine, sono felice.”
Queste parole mi hanno richiamato alla memoria il Potala, la maestosa residenza del Dalai Lama, dalla quale fu costretto a fuggire nel 1959 dall’invasione dei cinesi. L’ho visitata nel 1994, ridotta a un polveroso e triste museo. Ma credo che la sensazione di claustrofobia che mi diede, in questa visita, non fosse dovuta solo allo stato di abbandono in cui l’avevano ridotto i cinesi. Il Potala torreggia distante sulla capitale, Lhasa, dominandola da lontano. Le sue stanze probabilmente erano buie anche quando le abitava il Dalai Lama e anche allora ospitavano le tombe dei suoi predecessori. Qui, isolato dal resto del mondo, il Dalai Lama era educato dai suoi maestri. L’alpinista austriaco Heinrich Harrer nel suo libro “Sette anni in Tibet” parla della tetraggine di questa antica reggia e della vivace curiosità che il giovanissimo Tenzin Gyatso (il suo nome prima di assumere la carica di Dalai Lama) manifesta verso di lui e la cultura occidentale. 
Mi viene da pensare che la fuga dal Potala, con la forzata rinuncia al potere temporale e la dolorosa esperienza dell’esilio, sia diventata alla fine per lui un'occasione per realizzare questa sua aspirazione, coltivata fin da ragazzo, di avvicinarsi agli altri uomini, sperimentando la sua uguaglianza con loro, soddisfacendo al contempo la sua curiosità di conoscere la cultura occidentale.
Non ci parla di saggezza buddista, Tenzin Gyatso, ma di “etica secolare”, cioè di un'etica non religiosa, universalmente umana, in grado di condurci fuori dalle guerre e dai conflitti del XX secolo, di “educarci a un nuovo modo di pensare, a pensare che i conflitti possono essere risolti non con la violenza, ma con il dialogo, parlandosi. Il dialogo si basa sul rispetto della vita degli altri e del bisogno comune, nostro e degli altri, di essere felici.”.
“Fin da piccoli il nostro benessere dipende dall'affetto degli altri. Quando gli altri ci vogliono bene, noi siamo felici. L'etica altruistica che propongo si basa non su regole religiose, ma sulla nostra intelligenza di esseri umani. Un tempo le etnie, i paesi avevano pochi rapporti gli uni con gli altri. Ma ora il mondo è globale e interdipendente. Ora dobbiamo pensare a noi come a un noi mondiale, universale. Nelle Hawaij dicono: "il tuo sangue è il mio sangue, le tue ossa sono le mie ossa", che significa: le tue sofferenze sono le mie sofferenze, le tue gioie sono le mie gioie. Se diventiamo consapevoli della dipendenza della mia felicità da quella degli altri, se vogliamo  continuare a essere egoisti, almeno possiamo essere egoisti in un modo intelligente.”
Il Dalai Lama guarda al futuro e ai giovani: “Dobbiamo insegnare questa etica secolare a scuola fin dai primi anni. Il prossimo mese compierò 77 anni. Io, come la maggior parte di voi, appartengo più al secolo passato che a questo. E il XX secolo è stato il secolo delle guerre (più di 200 milioni di persone uccise in guerra) e della bomba atomica. Anche le guerre del XXI secolo nascono da errori compiuti nel secolo precedente. Proviamo a fare del XXI secolo il secolo del dialogo. I giovani possono avere un modo di pensare meno rigido, più aperto del nostro. La nostra società è troppo basata sulla competitività, e poco sull'etica. Bisogna cambiare il nostro modo di pensare addestrando la nostra mente: così potremo con il tempo elaborare nuove strategie. Ma ci vorrà tempo per questo: non è come prendere una pillola.”

lunedì 25 giugno 2012

Il medico che canta alle piante


Sono a Milano in una sala del Castello Sforzesco, a una conferenza cui mi ha invitato un'amica, che è anche una delle organizzatrici. Protaonista atteso è Juan Flores Salazar, curandero Ashaninka, originario dell'Amazzonia peruviana, per la prima volta in Italia. Bebetta mi aveva parlato a lungo di lui, come di un medico, uno sciamano, un grande maestro spirituale. Me lo aspetto maestoso, in variopinti abiti indigeni e mi compare invece davanti un ometto di bassa statura, vestito in abiti occidentali, apparentemente dimesso.


Viene introdotto da Adine Gavazzi, antropologa e storica dell'architettura andina, che lo ha scoperto anni fa e che dal 2007 frequenta con assiduità lui e la sua comunità. Adine ci parla della foresta amazzonica, come dell'ambiente caratterizzato dal tasso di biodiversità più alto del mondo. Ci racconta di questa misteriosa popolazione Ashaninka, che ha saputo convivere pacificamente e creativamente con questa biodiversità, traducendola in una cultura raffinata, che senza l'aiuto della scrittura, attraverso la sola tradizione orale, in 5.000 anni ha saputo isolare 18.000 essenze vegetali (la più estesa enciclopedia peruviana di botanica ne ha classificate solo 5.000 ...). Adine racconta come al suo stupore di fronte alla possibilità che una conoscenza così varia e sofisticata avesse potuto svilupparsi senza scrittura, gli Ashaninka le rispondessero: "Le piante ce lo dicono"...
Racconta, Adine, di come gli Ashaninka abbiamo saputo realizzare una conoscenza "mimetica" di questa ricca rete di relazioni tra specie vegetali, considerando ogni singola pianta come un organismo cosciente, un alleato, con un suo linguaggio da capire, decodificare, raccontare in miti di grande ricchezza narrativa.

Juan Flores Salazar ha dedicato 51 anni alla conoscenza delle piante e alla medicina vegetalista tradizionale, una conoscenza diretta, basata sull'assunzione personale di migliaia di essenze vegetali, che solo dopo essere state metabolizzate possono diventare alleate. Ed è poi diventato un punto di riferimento per la sua comunità, aiutandola a riscattare la sua parte di foresta, evitandone lo sfruttamento dalle multinazionali petrolifere e minerarie.

"Essere ashanika non è vivere in modo esotico, ma condividere le relazioni" conclude Adine.

A questo punto Juan Flores, invitato a prendere la parola, ci racconta di come sia usanza per i medici Ashaninka avvicinarsi alle piante, cantando loro con la propria voce. E ci canta uno dei primi canti imparati dal suo maestro. È un canto di ringraziamento alla pianta per le medicine che ci dà.

Non parla molto Juan Flores e si mette a disposizione del pubblico, per rispondere alle nostre domande. Sono domande spesso sofferte, che riflettono la nostra inquietudine, i nostri sensi di colpa e il nostro senso di impotenza nei confronti di una biodiversità e di cultura indigena che vorremmo preservare e che vediamo minacciate da una modernizzazione violenta che ha aggredito da diversi anni la foresta amazzonica.

A queste domande Juan Flores risponde ribadendo ogni volta, con umile determinazione, la sua intenzione di dialogare, con apertura, senza pregiudizi, con gli scienziati e i medici occidentali.
"Sono venuto qui per dialogare, per fare in modo che questi due mondi si parlino. Trovare un dialogo, un accordo sulle piante medicinali con le comunità urbane è un problema comune a tutta l'umanità, non è un problema solo peruviano. Come è un problema comune anche la conservazione della foresta. Cerco un dialogo con studiosi e scienziati. Ma non rifiutiamo la medicina occidentale. Ho fiducia che unendo le diverse medicine potremo curare meglio."

All'inevitabile domanda sull'Ayahuasca, pianta amazzonica nota per i suoi effetti allucinogeni, risponde molto semplicemente, scoraggiando qualsiasi curiosità morbosa: "Tutte le piante sono curative e maestre. In 50 anni di esperienza quotidiana delle piante posso dire di stare meglio. Per me la ahuasca non è una pianta allucinogena, ma è curativa. Tra noi nessuno esce di matto assumendo la ahuasca. È fondamentale avvicinarsi alle piante con amore, gentilezza, delicatezza e umiltà per preparare un autentico rimedio. Io ho studiato le piante per fare il bene, non il male: questo è il curandero. Il segreto sta nelle dosi, nella giusta dose per il paziente. Nessuna pianta fa male all'uomo".

Alla fine della conferenza la mia amica mi chiede cosa ne penso. Mi dice di essere dispiaciuta che Juan Flores abbia parlato così poco, mi esprime il suo timore che il pubblico non abbia potuto cogliere la vastità della sua sapienza. Le rispondo che quello che ho potuto cogliere di quest'uomo è il suo amore: per le piante, per le medicine, per i pazienti che cura. Più che quello che sa, Juan Flores mi ha comunicato il suo essere, con la semplicità di chi è maestro di vita ...

"Quando facciamo una medicina, la facciamo in modo profondo, con amore. In questo modo curiamo con le piante."

domenica 3 giugno 2012

Chiostro di San Francesco

Arrivo a Sorrento per incontrare A., una poetessa che sento vicina, con cui sto collaborando in un gruppo su Facebook. È il nostro primo incontro dal vivo, dopo contatti virtuali: dalla foto "faccia-libro" al suo volto, intenso e velato da un ombra di tristezza. Le stringo la mano. Prendiamo un caffè. Sono stanco e mi accompagna in albergo.

Mi viene a prendere sull'imbrunire e mi fa da Cicerone per le vie di Sorrento. Arriviamo a un belvedere sul mare appena in tempo per vedere il sole, davanti a noi, inabissarsi nelle onde.

Mi porta nel chiostro di San Francesco: rimango stordito dalla sua bellezza, fatta di antichità e di natura rigogliosa. Mi viene da piangere. Per darmi un tono faccio una fotografia, alla luce fioca del tramonto e alla luce elettrica di alcuni lampioni appena accesi.




 Ceniamo in una pizzeria sulla piazza centrale: un po' turistica e facciamo fatica a trovare un tavolo abbastanza appartato per parlare senza essere disturbati dal vociare altrui.

Finalmente abbiamo tempo per parlare. Di cosa? Di un geniale professore di informatica, che conosciamo e stimiamo entrambi, grazie al quale ci siamo trovati a condividere il gusto della poesia su Facebook. Della possibilità di scrivere via Internet poesie dialogiche, a quattro mani. Più in generale del senso della poesia, una scrittura a rilascio lento, in un luogo come Facebook, con i suoi tempi sincopati e la sua fruizione istantanea. Alla fine ci scambiamo le nostre poesie: lei mi regala un suo libro, io la raccolta in fogli A4 delle mie poesie, non pubblicate. È un momento di commozione per entrambi.

A. è una professoressa di lettere in pensione da appena un anno ed è stata un'insegnante in gamba, coraggiosa. Ha scelto volutamente di insegnare lettere negli istituti professionali, che tra gli istituti superiori sono considerati i più "sfigati", perché secondo lei è solo insegnando ai ragazzi che meno sanno, che più hanno problemi che si può dimostrare realmente la propria capacita di insegnare. La sua scelta è stata una sfida, ma anche impegno sociale, progetto politico, ispirato dalle idee di Don Milani, dalla sua sperimentazione nella scuola di Barbiana. Le luccicano gli occhi quando mi racconta come fosse possibile trasmettere il gusto della poesia ai suoi ragazzi, nonostante gli istituti professionali diano priorità ad altro, a materie utili per trovare subito lavoro. O forse proprio per questo, aggiunge: "Sai, quelli degli istituti professionali sono ragazzi genuini, vicini alla realtà, alla concretezza, liberi da sovrastrutture culturali. Ho potuto trovare tra loro petite preziose, vere perle di sensibilità poetica".

A. ha un carattere riservato, dosa le parole. Mi trasmette una passione contenuta, temperata da un estremo rigore. Mi è sembrato di cogliere in lei  un senso di solitudine, una sofferenza inespressa di cui non ho la chiave. In effetti siamo quasi degli estranei, ci conosciamo appena.

Davanti all'hotel, appena dopo aver preso in mano il mio fascicolo di poesie, mi congeda in modo sbrigativo, dicendomi che contrariamente a quanto mi aveva anticipato, l'indomani i suoi impegni le impediscono di rivedermi. Rimango dispiaciuto, perché speravo di continuare a parlare a lungo con lei.

Fin da piccolo, da quando tornavo dal sole ligure nello smog di Milano, sono abituato ad associare la tristezza al vivere a Milano e vedo le località marine come una promessa di gioia. Si può essere tristi a Sorrento?

La mattina dopo mi sveglio avvolto da un'ondata di tristezza, in cui il ricordo recente della poetessa e del suo brusco congedo la sera prima si mescolano ai ricordi lontani della solitudine che ho sofferto nel liceo classico milanese in cui ho passato la mia adolescenza, della solitudine affettiva del mio professore di italiano di allora, che ho colto in una sua bella lettera destinata a una mia cara compagna di classe: una lettera che mi è capitato di leggere recentemente.  Una tristezza alimentata dalla distanza spaziale che mi separa dalla mia compagna, Chameli, e dal mio desiderio di averla qui con me.

Così torno al chiostro di San Francesco, cercandovi conforto. Ora è soleggiato. Ho il tempo di osservarlo meglio, in tutta la sua bellezza. Un luogo di preghiera, arte e natura.

Le colonne antiche con i capitelli decorati, le felci, le foglie tondeggianti ed ampie di una pianta che non conosco, le rose, una buganvillea al piano superiore e nel mezzo del cortile un salice piangente.

È un luogo dell'anima. Lo è, certamente, per la mia anima. Qui mi rilasso e trovo finalmente un po' di pace e di gioia.


Immerso in profumi
di limoni antichi
da secoli mi aspettavi
chiostro di fratello sole
dove la preghiera
fiorisce nelle rose.

Il salice ricurvo

ora non mi piange più.


domenica 20 maggio 2012

Perché meditare?


Ho trovato un gran piacere nel leggere l'articolo di Paolo, perché mi restituisce e approfondisce un'esperienza che abbiamo fatto assieme.

Sperimentando la meditazione in pubblico, in un contesto così diverso dal solito, ho scoperto che se vado dentro di me tutto scompare, quindi poco importa se mi trovo al PAC di Milano o in un monastero isolato. Quando vado dentro di me c'è solo un confronto continuo con la mia mente, più o meno agitata, che a tratti si calma, permettendo di rilassarmi, più spesso salta come un grillo, passando da un pensiero all'altro o da una sensazione all'altra, toccando talvolta un mix di sensazioni, emozioni, pensieri.

Questa esperienza mi ha sollecitato una domanda, che si agita in me da molto tempo: perchè medito? Meditare significa infatti sottoporsi a questo balletto con la mente, talvolta insopportabile. Qualche giorno fa sono arrivata a questa risposta: non medito per fare esperienza di questa danza tra pensieri, sensazioni ed emozioni, che a volte diventa un vero e proprio inferno, né per cogliere un momento presente che cambia di continuo, ma per quello che accade dopo, quando capita di cogliere un barlume di pace senza tempo.

Questa domanda: perché medito? mi fa tornare la memoria a una lettera che scrissi molto tempo fa al mio maestro Osho Rajneesh per chiedergli che cosa pensasse di una pratica buddista che allora avevo intrapreso da poco. Mi rispose apprezzando l'apertura agli altri che traspariva dalla mia lettera e consigliandomi di usare sempre nelle mie scelte il criterio della gioia e della consapevolezza. In conclusione si raccomandò con me di non dimenticare mai la meditazione,che mi avrebbe portato come frutto la realizzazione: aggiunse che questo frutto così prezioso avrebbe valso l'impegno profuso, indipendentemente dal tempo dedicato, anche nel caso comportasse numerose esistenze.

Tornando a me, oggi, posso dire che mi ci vuole sempre un certo periodo di tempo per uscire dalla meditazione. Inizialmente mi sento ovattata, come se stesse nevicando, come se il tempo fosse rallentato. Poi emerge una nostalgia di quel dentro, il desiderio di tornare a quell'esperienza di pace. È come il richiamo della foresta. Sai che puoi ritornare lì, dove ti aspetta una nuova energia, che ti sorprende, che puoi trovare proprio perché non si cerca. Quando te ne accorgi, ti fa dire: "Oh, quanto sono cambiata! Oh, quanto mi sento viva! Oh quanto la vita può essere meravigliosa, anche se esiste il dolore."

Chi mi guarda mentre medito che cosa può cogliere di tutto questo? La speranza di Marina Abramovic è che "l'osservatore e l'osservato sappiano mettersi in relazione con se stessi e con il presente, l'inafferrabile momento del qui ed ora". Può capitare se c'è il contesto adatto. Il mio ricordo va a uno spettacolo particolare cui mi è capitato di assistere: un massaggio praticato da un maestro tantrico su un suo allievo. Tutti noi partecipavamo in silenzio. Mi sentivo come se anch'io ricevessi su di me questo massaggio, mi sentivo imbevuta di bellezza e di amore.
Per quella che è la mia esperienza, al PAC di Milano è invece molto più difficile che l'osservatore esterno sia coinvolto nella meditazione, perché quando ho partecipato come osservatrice mancava il silenzio, mancava questo rapporto diretto tra maestro e discepolo. Gli stessi assistenti chiacchieravano, favorendo la distrazione del pubblico e compromettendo così il suo coinvolgimento.

Della performance di Marina Abramovic ho comunque molto apprezzato la creazione di un contesto che consente la sperimentazione della meditazione a un largo pubblico.

Ringrazio il mio compagno, con cui ho condiviso questa esperienza: il suo amore ha aiutato e stimolato questa mia riflessione. Senza una relazione di amore, che è appunto un fermarsi e stare con se stessi e l'altro, non ci può essere una riflessione profonda.

giovedì 17 maggio 2012

La fascinazione "perniciosa" dell'energia

Un mio caro amico, che si è laureato in chimica e ha mantenuto una solida mentalità scientifica, mi ha espresso tutti i suoi dubbi quando ho parlato qui dell'energia dei cristalli.

Anche Bateson, eclettico antropologo, psicologo, filosofo e cibernetico, figlio di uno scienziato, ha espresso la sua avversione nei confronti di un uso disinvolto del concetto di energia, dicendo: "Fra tutti gli esempi di grandezze fisiche dotate di magia mentale, la più perniciosa è l'"energia". Questo concetto della fisica quantitativa, un tempo definito con rigore e dotato di dimensioni reali, è diventato, nel pensiero e nelle parole dei miei amici antimaterialisti, il principio esplicativo che si sostituisce a tutti gli altri." (Gregory Bateson & Mary Catherine Bateson Dove gli angeli esitano). Ma ha aggiunto: "ho deciso di vivere a Esalen, nel bel mezzo della contro cultura, con i suoi incantesimi, la sua ricerca astrologica della verità, i suoi riti divinatori, la sua medicina alternativa, le diete, lo yoga e via dicendo. Qui ho amici che mi vogliono bene e a cui voglio bene, e sempre più mi rendo conto che non potrei vivere altrove. I miei colleghi scienziati mi fanno paura e preferisco di gran lunga convivere con lo scetticismo che mi ispira gran parte della contro cultura che con il disgusto e l'orrore disumanizzante che mi ispirano i temi tradizionali e le abitudini di vita occidentali, così trionfanti e così spietati."

La "magia mentale" da cui è avvolto il concetto di energia è indubbio, ma non è detto che ciò debba essere per forza pernicioso. È la stessa "magia mentale" di cui hanno goduto in passato altre idee-forza, che hanno esercitato ed esercitano tuttora una vera e propria fascinazione culturale. Queste idee devono la loro diffusione non al rigore scientifico della loro definizione, ma al loro potenziale metaforico, alla loro presa sull'immaginazione umana, alla loro carica emotiva: direbbe Jung, alla loro connessione con archetipi del nostro inconscio collettivo. Penso a idee come anima, spirito e alla stessa idea di materia, che anche nell'accezione polemica con cui la usano i materialisti deve la sua forza non al suo rigore filosofico o alla sua origine scientifica, ma al suo legame, evidente nell'etimologia, con l'archetipo della Madre.

 I materialisti sanno di essere figli della Dea Madre?

domenica 22 aprile 2012

L'arte della presenza mentale


Quando la  meditazione diventa performance artistica

Sabato mattina ho meditato per quasi due ore seduto, in piedi, sdraiato: le tre classiche posizioni della meditazione buddista. A occhi chiusi, seguendo il respiro.

Un'esperienza famigliare per me, da anni. Non nuova per me l'esperienza dell'immobilità, del silenzio, reso più intenso da una cuffia sulle orecchie, della distrazione dei pensieri, che rende così difficile cogliere quel momento presente così prezioso, di cui parlano i maestri zen. Un qui e ora che ho sperimentato solo a tratti, quando il rilassamento apriva un varco tra i pensieri e le tensioni fisiche. Un varco in cui avvertivo una forte energia intorno a me: l'energia degli enormi cristalli di quarzo, tormalina ecc.,  posti sotto il lettino, sullo schienale della sedia ergonomica? quella del magnete collocato sopra la testa di un parallelepipedo in cui ho sostato in piedi? Semplicemente l'energia delle persone accanto a me? O l'energia in me?

Sedie ergonomiche, lettini, impalcature di legno, cristalli, cuffie: ausilii non comuni, ma non del tutto nuovi per chi pratica la meditazione. A essere completamente nuovo è il luogo, il contesto, per chi come me ha meditato a casa, in centri di meditazione, luoghi isolati.

Il luogo: un luogo pubblico, il PAC, il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. In presenza di spettatori che potevano guardarci durante la meditazione da vicino o più da lontano, da una sorta di loggione, con l'aiuto di cannocchiali e telescopi.

Il contesto: la performance artistica The Abramovic Method, in programma al PAC di Milano fino al prossimo 10 giugno. Quando io e Chameli abbiamo acquistato il biglietto avevamo letto di Marina Abramovic, performer serba sessantacinquenne,  che dopo aver sottoposto il suo corpo a prove estreme, negli ultimi anni si è aperta a una dimensione più meditativa. Sapevamo che Marina Abramovic durante i suoi quarant'anni di carriera era "giunta alla conclusione che il pubblico giochi un ruolo molto importante e cruciale nella performance stessa, […] che il pubblico completa l'opera. Nel caso di una performance è esattamente quello che succede. Senza il pubblico, la performance non ha senso. Il pubblico e il performer sono inseparabili e si completano l'un l'altro."



Chameli ed io ci aspettavamo quindi un'esperienza meditativa e un nostro coinvolgimento in questa esperienza. Ma non ci aspettavamo che la performance fosse la nostra meditazione, che la nostra consapevolezza del respiro e della postura, il nostro semplice essere presenti potessero diventare spettacolo per altri.

Ci aspettavamo che la performance avesse Marina Abramovic come protagonista, con noi come comprimari partecipi e attivi. Non pensavamo di essere noi il cuore della performance. Ci aspettavamo di incontrare Marina Abramovic e invece l'abbiamo vista solo in video, raccontare in breve la sua esperienza artistica e quindi dare alcune istruzioni a noi e agli altri partecipanti. In scena siamo rimasti noi, senza di lei.

Marina Abramovic era presente nella performance non di persona, ma come metodo: un metodo che consiste nella firma da parte dei partecipanti di un contratto, in cui si chiede di rimanere in sala per due ore e in una serie di istruzioni di semplici pratiche energetiche, impartite via video, introduttive rispetto alla successiva performance meditativa.

La performance The Abramovic Method mi è sembrata l'ultima fase di un’evoluzione artistica e spirituale, culminata con l'esperienza The artist is presence, di un paio di anni fa al MoMa di New York, in cui per tre mesi consecutivi tutti i giorni Marina Abramovic, seduta in silenzio su una sedia, semplicemente guardava chiunque si sedesse al tavolo, di fronte a lei. Le riprese di quei tre giorni, mostrate al PAC, ci restituiscono un volto, quello di Marina Abramovic, di grande bellezza, espressivo e imperturbabile, l'intensità degli sguardi suoi e di chi le sedeva di fronte. Come ha detto l'artista serba in un'intervista, quello che ci ha mostrato al MoMa è come per fare arte non sia necessario fare qualcosa: l'arte è semplicemente il dono della propria presenza.



A Milano al PAC un'ulteriore evoluzione per sottrazione: di Marina Abramovic resta il metodo. Non c'è più bisogno della sua presenza eroica da maratoneta delle performance, non c'è più bisogno della bellezza del suo viso. È bellezza, è arte la presenza mentale in chiunque la pratichi.

Ha scritto Marina Abramovic sul suo metodo:
Stiamo vivendo in un periodo difficile, nel quale il tempo ha sempre più valore, semplicemente perché ce n'è sempre di meno.
Credo che la performance di lunga durata abbia il potere di creare una trasformazione mentale e fisica sia per il performer sia per lo spettatore.
Per questo motivo vorrei dare al pubblico l'opportunità di sperimentare e riflettere sulla vacuità, il tempo, lo spazio, la luminosità e il vuoto.
Durante questa esperienza, spero che l'osservatore e l'osservato sapranno mettersi in relazione con se stessi e con il presente - l'inafferrabile momento del 'qui e ora'.

Importanti maestri hanno detto che la meditazione è osservazione partecipe di uno spettacolo che avviene in noi stessi, che la presenza mentale può essere considerata un'arte, l'arte suprema. E un barlume di questa verità è arrivata fino a me, dalla mia diretta esperienza. Ma non avrei mai pensato che qualcosa di così interiore, intimo, come la meditazione potesse diventare arte con un pubblico.

Mi sono chiesto che cosa possa arrivare agli spettatori di questa presenza, di quanto avviene interiormente a performer che non fanno assolutamente nulla: semplicemente sono seduti, sdraiati, in piedi immobili, a occhi chiusi. Quando con un telescopio ho provato a guardare i volti dei performer che sono venuti dopo di noi, ho avvertito un senso di disorientamento, smarrimento. "Cosa c'è da vedere?" Mi sono chiesto, non sapendo bene cosa fare con questo telescopio. Come se un regista avesse appena detto: “Azione” e sulla scena non succedesse proprio nulla. E mi è sembrato di cogliere un'espressione di questo stesso smarrimento nel volto spaesato di un performer, quando ha aperto gli occhi, per qualche minuto. Mi sono reso conto come questo disorientamento sia un horror vacui, sveli la nostra difficoltà di persone concentrate sul fare a sperimentare la non-azione, il vuoto, la semplice presenza.

Telescopi, cannocchiali: Marina Abramovic ce li ha messi a disposizione per vedere più da vicino i dettagli della performance? o per farci toccare con mano quanto sia inadeguata la pretesa di realmente cogliere qualcosa dell’altro con gli strumenti tecnologici di indagine oggettiva? per mostrarci quanto sia elusivo ed enigmatico il "qui ed ora"? quanto ci soprenda tutti, inatteso?

martedì 17 aprile 2012

Echi di Osho: la verità su di lui, oltre i media

Osho, noto anche come Bhagwan e Rajneesh, il guru indiano dalla lunga barba. Chameli ne ha parlato sul blog. Contrariamente a lei, io non l'ho mai incontrato. Quando era in vita, di lui ho avuto solo echi indiretti, spesso distorti da rumori di fondo.

Qui a Milano mi capitava, al Liceo e nei primi anni di università, di incontrare qualche volta per caso i suoi seguaci, gli arancioni, chiamati così per il colore dei loro vestiti. Ne sapevo poco e li confondevo con gli Hare Krishna.

Dai mass-media di lui mi arrivavano notizie scandalistiche: il guru del sesso libero, amante del lusso, collezionista di Rolls Royce, la sua comune nell'Oregon, la sua segretaria che scappa con la cassa, il suo arresto da parte della polizia americana, la sua espulsione, il suo ritorno in India, dove a Poona si costituisce attorno a lui una nuova comunità, dipinta a tinte fosche come luogo di droga e di promiscuità sessuale.

Negli anni '90, quando era già morto, mi è capitato di leggere Operazione Socrate, il racconto dell'esperienza dell'Oregon di due suoi seguaci italiani, Majid Valcarenghi e Ida Porta: ne emergeva un Osho diverso da quello dei giornali: un maestro spirituale anti-tradizionalista, anti-conformista, polemico e provocatorio verso le religioni istituzionali, per questo motivo attaccato dai fondamentalisti  evangelici, incarcerato e avvelenato dal Governo americano, come Socrate lo fu dal Governo ateniese. Una testimonianza di parte? Può darsi, ma degna di ascolto, come fonte alternativa alla "verità ufficiale" dei media. Più difficile è considerare di parte il giornalista Enzo Biagi, autore di un'intervista molto rispettosa a Osho.

Chi era veramente Osho? Supponiamo ora di volere arrivare a una verità su di lui, in modo il più possibile obiettivo, considerando pure gli aspetti più controversi della sua esperienza in Oregon, andando oltre le denigrazioni dei suoi nemici, ma anche l'agiografia dei suoi seguaci. Se fossi un giornalista, tra le fonti non potrei non considererare le testimonianze di chi lo ha avuto come maestro. Ma so che in questo modo non avrei più a che fare con la verità come è comunemente intesa dai reportage giornalistici. I suoi discepoli mi parlerebbero non di fatti, ma di quello che Osho ha significato nella loro vita. Toccheremmo un altro livello di verità, con altre regole del gioco.

"Che cos'è la verità?" chiese Ponzio Pilato a Gesù, che non gli rispose. La risposta di un autentico Maestro a questa domanda non può porsi su un piano logico-intellettuale. L'insegnamento è comunicato attraverso altri canali, passa da cuore a cuore. Chi di Osho ha avuto un'esperienza diretta raccontando di lui racconterebbe qualcosa di se stesso, della propria vita, qualcosa di prezioso e di profondo. Sarebbe anche la verità su di sé, non solo la verità su Osho. Una verità che coinvolge e mette in gioco chi ne parla.

Osho, pungente e dissacrante, che mi guarda dalle sue foto con occhi di una dolcezza disarmante. Non lascia indifferente: ti affascina o ti fa paura. L'ho avvicinato poco a poco, praticando la meditazione Vipassana e conoscendolo dalle parole di altri meditanti come divulgatore e innovatore delle tecniche orientali di meditazione. Mi sono avvicinato lentamente, ammettendo la mia paura e aprendomi alla vita  L'ho scoperto incontrando Chameli, la mia compagna: a lei e a lui ho dedicato una poesia.

domenica 25 marzo 2012

Voglio diventare un gelsomino

Nel 1984 incontrai un maestro indiano, Osho Rajneesh, che mi ha cambiato la vita. Lui mi diede il nuovo nome “Chameli”, che significa gelsomino. Faccio questa premessa con il cuore pieno di affetto e gratitudine verso questo maestro, che intuì, dandomi il nome di un fiore, quello che io ho impiegato una intera vita a comprendere.

Ho intrapreso il lavoro di psicoterapeuta, che amo profondamente, e dopo 20 anni di professione ho compreso con commozione la relazione tra il questo nuovo nome e il mio lavoro.

La psicoterapia, letteralmente, significa “terapia dell’anima” ed io così la intendo. Che sia psicanalisi freudiana o analisi del profondo, qualsiasi sia la scuola di riferimento, non importa più di tanto a chi ne beneficia. Generalmente va da uno psicoterapeuta chi si trova in difficoltà rispetto ad alcune situazioni di vita e sente che da solo non gli è possibile risolvere i suoi problemi, non tanto perché è in difetto, come purtroppo spesso i pazienti credono, ma perché è nella relazione con l’altro che noi possiamo trovare nuove risorse e liberare nuove energie per vivere meglio. Spesso il problema fondamentale è proprio quello di non essere stati educati ad una relazione umana, cioè una relazione che tenga in considerazione sia noi stessi, sia l’ambiente in cui viviamo.

La spiritualità è un’esperienza che modifica la nostra vita e che integra nella nostra quotidianità il mistero della vita. Anche se molti parlano di vita oltre la vita e fanno delle ipotesi interessanti e verosimili, una certezza a riguardo non c’è e non credo che ci sarà mai, forse non per caso: pertanto ritengo opportuno parlare di mistero. Credo che se vogliamo sviluppare una fede nella Vita, dobbiamo esperirla fino in fondo, preservando il mistero ed integrandolo un a un pezzo alla volta, man mano che viviamo. La saggezza, l’equilibrio e tutte le qualità di cui abbiamo bisogno per vivere bene sono il risultato di questo percorso.

Jung in “Psicologia e religione” distingue la “religiosità”, esperienza diretta del sacro che trasforma la vita, dalla “religione”, intesa invece come surrogato della stessa religiosità, quando manca questa esperienza diretta.

Il significato che io do a “spiritualità” è identico a quello di “religiosità”, che in Jung è una funzione dell’inconscio. Quello che dice Jung è importante, perché implica che se si fa un lavoro in psicoterapia sufficientemente profondo, in un certo momento ci si incontra o scontra con questa funzione.

A questo punto psicoterapia e spiritualità si possono incontrare e diventare una: ciò avviene quando la psicoterapia porta le persone ad evolvere, acquistando un valore etico e rendendo le persone migliori di quello che erano prima di iniziare questo percorso. Secondo me questo è possibile solo se lo stesso terapeuta ha già fatto questo passaggio. Ritengo che nel lavoro di psicoterapia si può trasmettere solo quello che si è, ma quello che siamo è un processo in divenire.

L’essenza di un fiore è il suo profumo. Un terapeuta è un fiore che emana un profumo, ognuno il suo, che è il risultato della sua vita. Il mio profumo è di gelsomino

Noi siamo, e qui cito il mio supervisore Alberto Torre, cellule staminali del divino, cioè siamo Dio: non è un’affermazione di grandiosità, ma al contrario un’affermazione che riconosce la bellezza e la perfezione della vita anche in una piccola cellula.

Se sono Dio basta che preghi e mi affidi al divino dentro di me, qualunque cosa faccia .

Ogni mattina io prego la buddhità, termine che nella tradizione buddista che seguo indica il divino dentro di me, il sacro e l’armonia presente nella natura dall’uomo alla montagna.

Prego per ricevere l’aiuto a sostenermi ad essere quello che sono nella mia essenza, quello che di me Osho aveva immediatamente compreso, per ricevere l’aiuto a essere un gelsomino che fiorisce.


TERAPIA

Profumo di sorriso

Forza tranquilla di relazione

Camminare sulla sabbia

Senza lasciare traccia

Emozioni che si liberano

Dalla prigione del passato

Sole che scioglie

La barriera congelata

Della vergogna