venerdì 29 giugno 2012

Il Dalai Lama, un uomo che non si sente solo


Sono al Mediolanum Forum di Assago ad ascoltare il Dalai Lama.
Nel 1999, quando lo incontrai per la prima volta a Milano, si era presentato, come un semplice monaco, rifiutando l’etichetta di “Buddha vivente” come un fraintendimento che lo imbarazzava, sminuendo la statura storica del Buddha. Parlando della devozione di cui godono in Tibet i lama, i maestri spirituali, precisò che la devozione non deve essere in nessun caso fede cieca, ma solo profondo rispetto basato sul senso critico e un attenta osservazione delle qualità caratteriali del maestro. “E questo vale anche per me: mettetemi pure sotto esame, senza farvi impressionare dall’alto trono in cui sono seduto e dal mio nome altisonante”. E concluse con una delle sue caratteristiche, fragorose risate.
Oggi nel parlarci scende dal trono, dove la mattina aveva guidato una cerimonia di iniziazione, sedendosi sullo scalino più basso del palco: “Sono sempre contento di incontrare gente con cui condividere le mie esperienze: sono anche per me occasioni di apprendimento, per ritornare su certi concetti e per imparare nuovi punti di vista.”
Abbandonando anche le vesti del monaco, si presenta a noi semplicemente come uomo. Ci parla non dall’alto del suo ruolo di leader spirituale di un popolo e di un’antica tradizione religiosa, quella del buddismo tibetano, ma da pari a pari, sulla base della sua esperienza, della sua saggezza umana e del suo desiderio di condividerla con altri esseri umani.
“Mi sento una persona semplice, in nulla diverso da sette miliardi di altri esseri umani. Siamo tutti uguali. Se nel rivolgermi a voi pensassi di essere un monaco buddista, creerei un divario tra me e voi. Il fondamento del nostro essere uguali è una natura comune, è il soffrire e il desiderio di essere felici.”
“Se io penso di essere il Dalai Lama e di essere migliore degli altri, creo una distanza con gli altri, mi isolo. Fin da ragazzo è stata una mia aspirazione considerarmi uguale agli altri, superare le barriere che mi separano dagli altri. Allora mi piaceva molto chiacchierare con gli spazzini e mescolarmi con loro. In questo modo ora ho amici in tutto il mondo, non soffro la solitudine, sono felice.”
Queste parole mi hanno richiamato alla memoria il Potala, la maestosa residenza del Dalai Lama, dalla quale fu costretto a fuggire nel 1959 dall’invasione dei cinesi. L’ho visitata nel 1994, ridotta a un polveroso e triste museo. Ma credo che la sensazione di claustrofobia che mi diede, in questa visita, non fosse dovuta solo allo stato di abbandono in cui l’avevano ridotto i cinesi. Il Potala torreggia distante sulla capitale, Lhasa, dominandola da lontano. Le sue stanze probabilmente erano buie anche quando le abitava il Dalai Lama e anche allora ospitavano le tombe dei suoi predecessori. Qui, isolato dal resto del mondo, il Dalai Lama era educato dai suoi maestri. L’alpinista austriaco Heinrich Harrer nel suo libro “Sette anni in Tibet” parla della tetraggine di questa antica reggia e della vivace curiosità che il giovanissimo Tenzin Gyatso (il suo nome prima di assumere la carica di Dalai Lama) manifesta verso di lui e la cultura occidentale. 
Mi viene da pensare che la fuga dal Potala, con la forzata rinuncia al potere temporale e la dolorosa esperienza dell’esilio, sia diventata alla fine per lui un'occasione per realizzare questa sua aspirazione, coltivata fin da ragazzo, di avvicinarsi agli altri uomini, sperimentando la sua uguaglianza con loro, soddisfacendo al contempo la sua curiosità di conoscere la cultura occidentale.
Non ci parla di saggezza buddista, Tenzin Gyatso, ma di “etica secolare”, cioè di un'etica non religiosa, universalmente umana, in grado di condurci fuori dalle guerre e dai conflitti del XX secolo, di “educarci a un nuovo modo di pensare, a pensare che i conflitti possono essere risolti non con la violenza, ma con il dialogo, parlandosi. Il dialogo si basa sul rispetto della vita degli altri e del bisogno comune, nostro e degli altri, di essere felici.”.
“Fin da piccoli il nostro benessere dipende dall'affetto degli altri. Quando gli altri ci vogliono bene, noi siamo felici. L'etica altruistica che propongo si basa non su regole religiose, ma sulla nostra intelligenza di esseri umani. Un tempo le etnie, i paesi avevano pochi rapporti gli uni con gli altri. Ma ora il mondo è globale e interdipendente. Ora dobbiamo pensare a noi come a un noi mondiale, universale. Nelle Hawaij dicono: "il tuo sangue è il mio sangue, le tue ossa sono le mie ossa", che significa: le tue sofferenze sono le mie sofferenze, le tue gioie sono le mie gioie. Se diventiamo consapevoli della dipendenza della mia felicità da quella degli altri, se vogliamo  continuare a essere egoisti, almeno possiamo essere egoisti in un modo intelligente.”
Il Dalai Lama guarda al futuro e ai giovani: “Dobbiamo insegnare questa etica secolare a scuola fin dai primi anni. Il prossimo mese compierò 77 anni. Io, come la maggior parte di voi, appartengo più al secolo passato che a questo. E il XX secolo è stato il secolo delle guerre (più di 200 milioni di persone uccise in guerra) e della bomba atomica. Anche le guerre del XXI secolo nascono da errori compiuti nel secolo precedente. Proviamo a fare del XXI secolo il secolo del dialogo. I giovani possono avere un modo di pensare meno rigido, più aperto del nostro. La nostra società è troppo basata sulla competitività, e poco sull'etica. Bisogna cambiare il nostro modo di pensare addestrando la nostra mente: così potremo con il tempo elaborare nuove strategie. Ma ci vorrà tempo per questo: non è come prendere una pillola.”

lunedì 25 giugno 2012

Il medico che canta alle piante


Sono a Milano in una sala del Castello Sforzesco, a una conferenza cui mi ha invitato un'amica, che è anche una delle organizzatrici. Protaonista atteso è Juan Flores Salazar, curandero Ashaninka, originario dell'Amazzonia peruviana, per la prima volta in Italia. Bebetta mi aveva parlato a lungo di lui, come di un medico, uno sciamano, un grande maestro spirituale. Me lo aspetto maestoso, in variopinti abiti indigeni e mi compare invece davanti un ometto di bassa statura, vestito in abiti occidentali, apparentemente dimesso.


Viene introdotto da Adine Gavazzi, antropologa e storica dell'architettura andina, che lo ha scoperto anni fa e che dal 2007 frequenta con assiduità lui e la sua comunità. Adine ci parla della foresta amazzonica, come dell'ambiente caratterizzato dal tasso di biodiversità più alto del mondo. Ci racconta di questa misteriosa popolazione Ashaninka, che ha saputo convivere pacificamente e creativamente con questa biodiversità, traducendola in una cultura raffinata, che senza l'aiuto della scrittura, attraverso la sola tradizione orale, in 5.000 anni ha saputo isolare 18.000 essenze vegetali (la più estesa enciclopedia peruviana di botanica ne ha classificate solo 5.000 ...). Adine racconta come al suo stupore di fronte alla possibilità che una conoscenza così varia e sofisticata avesse potuto svilupparsi senza scrittura, gli Ashaninka le rispondessero: "Le piante ce lo dicono"...
Racconta, Adine, di come gli Ashaninka abbiamo saputo realizzare una conoscenza "mimetica" di questa ricca rete di relazioni tra specie vegetali, considerando ogni singola pianta come un organismo cosciente, un alleato, con un suo linguaggio da capire, decodificare, raccontare in miti di grande ricchezza narrativa.

Juan Flores Salazar ha dedicato 51 anni alla conoscenza delle piante e alla medicina vegetalista tradizionale, una conoscenza diretta, basata sull'assunzione personale di migliaia di essenze vegetali, che solo dopo essere state metabolizzate possono diventare alleate. Ed è poi diventato un punto di riferimento per la sua comunità, aiutandola a riscattare la sua parte di foresta, evitandone lo sfruttamento dalle multinazionali petrolifere e minerarie.

"Essere ashanika non è vivere in modo esotico, ma condividere le relazioni" conclude Adine.

A questo punto Juan Flores, invitato a prendere la parola, ci racconta di come sia usanza per i medici Ashaninka avvicinarsi alle piante, cantando loro con la propria voce. E ci canta uno dei primi canti imparati dal suo maestro. È un canto di ringraziamento alla pianta per le medicine che ci dà.

Non parla molto Juan Flores e si mette a disposizione del pubblico, per rispondere alle nostre domande. Sono domande spesso sofferte, che riflettono la nostra inquietudine, i nostri sensi di colpa e il nostro senso di impotenza nei confronti di una biodiversità e di cultura indigena che vorremmo preservare e che vediamo minacciate da una modernizzazione violenta che ha aggredito da diversi anni la foresta amazzonica.

A queste domande Juan Flores risponde ribadendo ogni volta, con umile determinazione, la sua intenzione di dialogare, con apertura, senza pregiudizi, con gli scienziati e i medici occidentali.
"Sono venuto qui per dialogare, per fare in modo che questi due mondi si parlino. Trovare un dialogo, un accordo sulle piante medicinali con le comunità urbane è un problema comune a tutta l'umanità, non è un problema solo peruviano. Come è un problema comune anche la conservazione della foresta. Cerco un dialogo con studiosi e scienziati. Ma non rifiutiamo la medicina occidentale. Ho fiducia che unendo le diverse medicine potremo curare meglio."

All'inevitabile domanda sull'Ayahuasca, pianta amazzonica nota per i suoi effetti allucinogeni, risponde molto semplicemente, scoraggiando qualsiasi curiosità morbosa: "Tutte le piante sono curative e maestre. In 50 anni di esperienza quotidiana delle piante posso dire di stare meglio. Per me la ahuasca non è una pianta allucinogena, ma è curativa. Tra noi nessuno esce di matto assumendo la ahuasca. È fondamentale avvicinarsi alle piante con amore, gentilezza, delicatezza e umiltà per preparare un autentico rimedio. Io ho studiato le piante per fare il bene, non il male: questo è il curandero. Il segreto sta nelle dosi, nella giusta dose per il paziente. Nessuna pianta fa male all'uomo".

Alla fine della conferenza la mia amica mi chiede cosa ne penso. Mi dice di essere dispiaciuta che Juan Flores abbia parlato così poco, mi esprime il suo timore che il pubblico non abbia potuto cogliere la vastità della sua sapienza. Le rispondo che quello che ho potuto cogliere di quest'uomo è il suo amore: per le piante, per le medicine, per i pazienti che cura. Più che quello che sa, Juan Flores mi ha comunicato il suo essere, con la semplicità di chi è maestro di vita ...

"Quando facciamo una medicina, la facciamo in modo profondo, con amore. In questo modo curiamo con le piante."

domenica 3 giugno 2012

Chiostro di San Francesco

Arrivo a Sorrento per incontrare A., una poetessa che sento vicina, con cui sto collaborando in un gruppo su Facebook. È il nostro primo incontro dal vivo, dopo contatti virtuali: dalla foto "faccia-libro" al suo volto, intenso e velato da un ombra di tristezza. Le stringo la mano. Prendiamo un caffè. Sono stanco e mi accompagna in albergo.

Mi viene a prendere sull'imbrunire e mi fa da Cicerone per le vie di Sorrento. Arriviamo a un belvedere sul mare appena in tempo per vedere il sole, davanti a noi, inabissarsi nelle onde.

Mi porta nel chiostro di San Francesco: rimango stordito dalla sua bellezza, fatta di antichità e di natura rigogliosa. Mi viene da piangere. Per darmi un tono faccio una fotografia, alla luce fioca del tramonto e alla luce elettrica di alcuni lampioni appena accesi.




 Ceniamo in una pizzeria sulla piazza centrale: un po' turistica e facciamo fatica a trovare un tavolo abbastanza appartato per parlare senza essere disturbati dal vociare altrui.

Finalmente abbiamo tempo per parlare. Di cosa? Di un geniale professore di informatica, che conosciamo e stimiamo entrambi, grazie al quale ci siamo trovati a condividere il gusto della poesia su Facebook. Della possibilità di scrivere via Internet poesie dialogiche, a quattro mani. Più in generale del senso della poesia, una scrittura a rilascio lento, in un luogo come Facebook, con i suoi tempi sincopati e la sua fruizione istantanea. Alla fine ci scambiamo le nostre poesie: lei mi regala un suo libro, io la raccolta in fogli A4 delle mie poesie, non pubblicate. È un momento di commozione per entrambi.

A. è una professoressa di lettere in pensione da appena un anno ed è stata un'insegnante in gamba, coraggiosa. Ha scelto volutamente di insegnare lettere negli istituti professionali, che tra gli istituti superiori sono considerati i più "sfigati", perché secondo lei è solo insegnando ai ragazzi che meno sanno, che più hanno problemi che si può dimostrare realmente la propria capacita di insegnare. La sua scelta è stata una sfida, ma anche impegno sociale, progetto politico, ispirato dalle idee di Don Milani, dalla sua sperimentazione nella scuola di Barbiana. Le luccicano gli occhi quando mi racconta come fosse possibile trasmettere il gusto della poesia ai suoi ragazzi, nonostante gli istituti professionali diano priorità ad altro, a materie utili per trovare subito lavoro. O forse proprio per questo, aggiunge: "Sai, quelli degli istituti professionali sono ragazzi genuini, vicini alla realtà, alla concretezza, liberi da sovrastrutture culturali. Ho potuto trovare tra loro petite preziose, vere perle di sensibilità poetica".

A. ha un carattere riservato, dosa le parole. Mi trasmette una passione contenuta, temperata da un estremo rigore. Mi è sembrato di cogliere in lei  un senso di solitudine, una sofferenza inespressa di cui non ho la chiave. In effetti siamo quasi degli estranei, ci conosciamo appena.

Davanti all'hotel, appena dopo aver preso in mano il mio fascicolo di poesie, mi congeda in modo sbrigativo, dicendomi che contrariamente a quanto mi aveva anticipato, l'indomani i suoi impegni le impediscono di rivedermi. Rimango dispiaciuto, perché speravo di continuare a parlare a lungo con lei.

Fin da piccolo, da quando tornavo dal sole ligure nello smog di Milano, sono abituato ad associare la tristezza al vivere a Milano e vedo le località marine come una promessa di gioia. Si può essere tristi a Sorrento?

La mattina dopo mi sveglio avvolto da un'ondata di tristezza, in cui il ricordo recente della poetessa e del suo brusco congedo la sera prima si mescolano ai ricordi lontani della solitudine che ho sofferto nel liceo classico milanese in cui ho passato la mia adolescenza, della solitudine affettiva del mio professore di italiano di allora, che ho colto in una sua bella lettera destinata a una mia cara compagna di classe: una lettera che mi è capitato di leggere recentemente.  Una tristezza alimentata dalla distanza spaziale che mi separa dalla mia compagna, Chameli, e dal mio desiderio di averla qui con me.

Così torno al chiostro di San Francesco, cercandovi conforto. Ora è soleggiato. Ho il tempo di osservarlo meglio, in tutta la sua bellezza. Un luogo di preghiera, arte e natura.

Le colonne antiche con i capitelli decorati, le felci, le foglie tondeggianti ed ampie di una pianta che non conosco, le rose, una buganvillea al piano superiore e nel mezzo del cortile un salice piangente.

È un luogo dell'anima. Lo è, certamente, per la mia anima. Qui mi rilasso e trovo finalmente un po' di pace e di gioia.


Immerso in profumi
di limoni antichi
da secoli mi aspettavi
chiostro di fratello sole
dove la preghiera
fiorisce nelle rose.

Il salice ricurvo

ora non mi piange più.